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      Il mondo adunque aveva per me quest'ultimo rilevantissimo vantaggio sulla cucina di Fratta, che non vi era confitto al martirio dello spiedo. Se era solo, saltava, cantava, parlava con me stesso; rideva della consolazione di sentirmi libero e andava studiando qualche bel garbo sul taglio di quelli della Pisana per farmene poi l'aggraziato dinanzi a lei. Quando poi riusciva a tirare con me per solchi e boschetti questa mia incantatrice, allora mi pareva di essere tutto quello che voleva io o che ella avrebbe desiderato. Non v'era cosa che non credessi mia e che io non mi tenessi capace di ottenere per contentarla; com'ella era padrona e signora in castello, cosí là nella campagna mi sentiva padrone io; e le ne faceva gli onori come d'un mio feudo. Di tanto in tanto, per rificcarmi ne' miei stracci, ella diceva con un cipiglietto serio serio: - Questi campi sono miei, e questo prato è mio! - Ma di cotali attucci da feudataria io non prendeva nessuna soggezione; sapeva e sentiva che sulla natura io aveva una padronanza non concessa a lei; la padronanza dell'amore. La indifferenza di Lucilio per le alte occhiate del Partistagno e per le burlate dei fanciulli, io la sentiva per quei tiri principeschi della Pisana. E lontano dai merli signorili e dall'odore della cancelleria, mi ripullulava nel cuore quel sentimento d'uguaglianza che ad un animo sincero e valoroso fa guardar ben dall'alto perfin le teste dei re. Era il pesce rimesso nell'acqua, l'uccello fuggito di gabbia, l'esule tornato in patria.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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