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      Ella intendeva punirmi cosí della mia superbia. Ma era forse superbia? Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei cagione della mia morte. La compiangeva e l'amava, mentre avrei dovuto odiarla, disprezzarla, punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per fortuna che la signora Contessa ammalasse; dico per fortuna, perché cosí rimasero interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione perché io non morii. Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto piú che ve lo chiamava il suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga cosí incantata di lui a Fratta, come a Portogruaro. Una volta o due gli usò una qualche attenzione, poi se ne astenne senza sforzo e a poco a poco tornò appetto a lui nella solita indifferenza. Mano a mano che Lucilio usciva dal suo cuore vi rientrava io; e non debbo nascondere che la mia gioia di questo pentimento fu cosí veemente, cosí piena come se io fossi tornato alla prima fiducia dei nostri affetti. Io era fanciullo, io le credeva ciecamente. Come ad onta delle sue passeggiere civetterie mi fidava di lei un tempo, sicuro che in fondo al cuore non ci stava che io, cosí allora tornava a persuadermi che i frutti di quel ravvedimento dovessero essere eterni. Giungeva quasi a trovare in quelle apparenti infedeltà e in quelle pronte pacificazioni una prova di piú ch'ella non poteva amare che me né vivere senza di me. Io non le mossi adunque parola delle mie torture, schivai di rispondere alle sue dimande, indovinando quasi che la confessione d'una gelosia è il piú caldo incentivo di nuove infedeltà. Accusai una bizzarria d'umore, un malessere inesplicabile, e chiusi il varco ad altre inchieste col lasciar libero campo alla mia gioia e allo sfogo d'un cuore chiuso in se stesso da tanto tempo.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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