La mia camera godeva almanco d'un bel sole e poteva alzar gli occhi senza incontrarli negli sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me qualche giorno dopo nei corritoi dell'Università, ma sembravano cosí poco vogliosi di appiccar parola con me come io di avvicinarmi a loro. Ne domandai conto a qualcuno, e seppi che erano i piú beoni e scapestrati dello Studio. Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora ottenuto la laurea, e sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d'inganno e di rapina alle spalle del prossimo. Io compiansi l'avvocato Ormenta di saperlo zimbello di cotali ghiottoni; ma quando mi intesi di aprirgli gli occhi sul loro conto egli mi accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi, non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede del buon avvocato fosse molto piú pura della sua morale; poiché se quelli erano difettucci non capiva piú quali fossero i vizii ch'io era destinato a combattere.
CAPITOLO NONO
L'amico Amilcare disfà la conversione del padre Pendola e mi rimette allo studio della filosofia. Passo per Venezia ove Lucilio seguita ad insidiare la Repubblica e la pace della Contessa di Fratta. Mia eroica rinunzia a favore di Giulio Del Ponte. Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la cancelleria della giurisdizione di Fratta ove comincio col prestare segnalati servigi.
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