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      Io l'amava allora disperatamente per me, la odiava per lo spietato martirio cui ella condannava il povero Giulio, la disprezzava per la sua perfida idolatria a un giovinastro frivolo e scostumato com'era il Venchieredo. Non so quale smania mi sentissi in cuore di calpestarla di svillaneggiarla: insuperbiva fra me di amarla ancora, e di poter dire tuttavia che l'avrei ceduta ad un altro per salvargli la vita! Ella invece procedeva innanzi cieca come il carnefice. Cieca! Ecco la sua scusa: credo ch'ella non vedesse nulla, non s'accorgesse di nulla. Le sue passioni furono sempre cosí eccessive che le vietarono di discernere alcuna cosa fuori di loro. A veder l'anima straziata di Giulio dibattersi in un corpo smunto e consumato per lottare ancora per difendersi fino alla morte contro il facile e sereno predominio di Raimondo, venivan proprio agli occhi le lagrime. Il fuoco delle pupille, lo splendore dello spirito che un tempo gli trapelava dal volto era scomparso; con ciò ogni sua bellezza s'era spenta, perch'egli non ne aveva altra; fino la maestà del pallore pareva insozzata dalle macchie brune e verdastre di cui la chiazzava il sangue corrotto dalla bile. Pareva un malato di pellagra, e la vergogna del proprio aspetto toglieva ogni coraggio a' suoi sguardi, ogni sicurezza alle sue parole. Il brio, già attutito al soverchiar dell'amore, sforzava indarno il coperchio sepolcrale della disperazione. Brillava a tratti come un fuoco fatuo di cimitero; e lo sforzo di volontà, che lo accendeva momentaneamente, ricadeva poco stante in un peggiore abbattimento.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





Giulio Venchieredo Giulio Raimondo