Questi mi seguiva a malincuore, ansava come un naufrago che sta per perdere l'ultima tavola, e teneva la testa rivolta ostinatamente ad osservare la contentezza del fortunato rivale.
- Giulio, che fai?... - gli dissi scotendolo. - Ritorna in te! abbracciami! non mi hai ancora salutato!...
Mi guardò quasi trasognato, indi, poiché fummo nel buio d'una calle remota, mi mise le braccia intorno al collo senza parlare né piangere. Cosí non ci eravamo lasciati. Egli allora trionfante e felice non s'avvedeva di me misero ed avvilito; m'avea fatto della mano un cenno di commiato, quasi di protezione e di pietà; io non avea né voluto né potuto stringere la mano di chi mi rubava la ricchezza dell'anima mia. Oh quanto mutati ci ricongiungeva la fortuna! Io sotto il peso d'un doppio disinganno aveva il coraggio di compatire a lui piú che a me stesso, a lui decaduto dalla ricca noncuranza del trionfo alla mendicità della sventura, a lui tanto crudele e nocivo contro di me un anno prima, quanto a lui stesso lo era allora Raimondo.
- Giulio, che fai? - tornai ancora a dire sollevandogli la fronte. - Tu vuoi ammalarti e ci riesci a forza di esser crudo e spietato in te stesso.
- Voglio ammalarmi?... No, no, Carlo, - rispose egli con voce fioca e straziante - voglio anzi guarire, voglio vivere! voglio che la giovinezza rifiorisca sul mio volto, che le allegre immagini si ricoloriscano alla mente, che l'anima si rigonfi come la gemma del rosaio al soffio primaverile, e che trabocchi fuori in lieti discorsi, in frizzi faceti, in cantici smaglianti d'amore di poesia!
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Raimondo Carlo
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