Cosí le cose s'erano raccomodate o bene o male per tutti; ma il mondo non era solamente Fratta, e fuori di là i romori i guai le minacce di guerre e di rivoluzioni crescevano sempre. Le novelle di Venezia si chiedevano ansiosamente, si commentavano, si storpiavano, si ingrandivano e formavano poi il tema a burrascose contese dintorno al focolare del castello.
Il Capitano provava, come due e due fanno quattro, che le paure erano esagerate e che la Signoria avvisava saggiamente di ristare dai provvedimenti straordinari, perché i Francesi, anche con ogni buon vento in poppa, avrebbero dovuto impiegare tre anni al passaggio delle Alpi, e altri quattro ad un avanzamento dalla Bormida al Mincio. Numerava le linee di difesa, le forze dei nemici, i capitani, le fortezze; insomma, secondo lui quella guerra o sarebbe finita al di là dei monti, o al di qua sarebbe caduta in retaggio alla generazione seguente. Giulio Del Ponte e qualchedun altro che veniva da Portogruaro non erano di questo parere; secondo loro i vantaggi degli alleati eran ben lungi dall'assicurar completamente la Repubblica contro le esorbitanze dei Francesi, e questi di lí a due, di lí a tre mesi poteva benissimo darsi che avessero già invasi gli Stati di terraferma, e lo stesso Friuli. Il Conte e Monsignore rabbrividivano di queste previsioni; e toccava poi a me distruggere i cattivi effetti di tante soverchie e precoci paure.
Cosí barcheggiando si venne alla primavera del '95. La Repubblica di Venezia avea già riconosciuto solennemente il nuovo governo democratico di Francia; il suo rappresentante Alvise Querini aveva fatto al Direttorio la sua chiacchierata, e a saldare la recente amicizia s'era anzi dato lo sfratto da Verona al Conte di Provenza.
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