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      Soprattutto lo strazio della vecchia Contessa di Fratta non voleva udirlo nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo; e per questo inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito, se le cose andavano per la solita strada; ma la fortuna s'intromise a farla vincere a me coi miei grilli d'ambizione e di superbia. Un bel giorno (eravamo agli ultimi di marzo) mi capita da Venezia una lettera della signora Contessa. Leggo e rileggo la sottoscrizione. Non c'è caso: l'è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch'ella mi scriva e piú ancora che la incominci in capo a pagina con un caro nipote. Fui per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio padre! nientemeno che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto, che non si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava, ma il cuore avido d'amare diceva di sí, e già egli volava sulla via di Venezia che non era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d'avervi impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni tanto per paura di aver frainteso e di essermi lusingato indarno. Consegnata la cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva il cuore che non si voleva star cheto; e nel cervello poi mi sobbollivano tante speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d'impossibile, che non ebbi piú pace. La Contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti; aggiungeva che mio padre non iscriveva lui perché avea disimparato l'alfabeto italiano, che smontassi intanto presso di lei non piú in casa Frumier ma in casa Perabini in Canarregio, e finiva col mandare al diletto nipote i baci suoi e della cugina Pisana.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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