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      Un'ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d'una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltabeccando nell'anticamera. Io gli era corso incontro fin là; la Contessa, venutami dietro, si pose a gridare: - Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! - Io infatti mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né molto affettuoso né troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava mi fossi nicchiato in un cosí oscuro bugigattolo come era una cancelleria di campagna, e mi promise, che inscritto che io fossi come suo legittimo figliuolo nel Libro d'Oro, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell'accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per corroborar l'argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinno di zecchini e di doble. Ad ognuno di questi accordi metallici il viso giallognolo della Contessa s'irraggiava d'un roseo riflesso, come il cielo scuriccio d'un temporale all'occhiata di traverso che gli manda il sole. Io poi ascoltava e guardava quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia, colla ricchezza in una mano, la potenza nell'altra, e una larghissima dose di canzonatura in tutte le sue maniere, mi faceva un effetto maraviglioso.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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