Ella li credeva con tutta buona fede eretici, bestiali, indemoniati; e nelle litanie dei santi, dopo aver pregato il Signore per l'allontanamento di ogni male, lo supplicava mentalmente di liberar Venezia dai Francesi che le sembravano il male piú grosso.
Per Venezia infatti se non il piú grosso erano certo il male piú nuovo ed imminente. Le altre disgrazie già incancrenite non davano piú sentore di sé. Quella era la piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluir al cuore gli umori guasti e stagnanti. Ogni giorno recava l'annunzio d'una nuova defezione, d'un nuovo tradimento, di un'altra ribellione. Il Doge si scomponeva il corno sul capo anche nelle grandi cerimonie; i Savi perdevano la testa e commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche portiere i segreti del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Bonaparte per una lunga trafila d'amici, di cui il primo capo era un banchiere francese stabilito a Venezia e pagato perciò, credo, alcune migliaia di ducati. Figuratevi che puntelli da sostenere un governo pericolante! - La storia della Repubblica di Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d'inverno; una tragedia non basta ad occupare le ore troppo lunghe, ci vuole dopo la farsa. E la farsa ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d'opinione, ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di que' parrucconi senza cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli, a tutti i potenti ridotti inetti che s'hanno subito addosso le maledizioni il danno e le beffe.
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