- Il signor di Venchieredo. Non ve l'aspettavate forse, perché il suo delitto non era certo di favoreggiare i
Francesi. Ma io credo che o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire. Il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d'Anfo egli era corso a Milano dove era allora la stanza del general Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica veneta.
Una sera (già si correva precipitosamente all'abisso del dodici maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grandi cose a comunicarmi, e che stessi ben attento e ponderassi tutto perché dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia.
- Domani - egli mi disse - si compirà la rivoluzione a Venezia.
Io diedi un strabalzo di sorpresa, perché colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio e i negoziati pendenti ancora a Milano non mi entrava quel bisogno di rivoluzione.
- Sí - egli riprese - non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito di tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via perché non ti perda poi nel momento decisivo. Sai tu, figliuol mio, cosa voglia dire una repubblica democratica?
- Oh certo! - io sclamai coll'ingenuo entusiasmo d'un giovane di ventiquattr'anni. - Essa è la concordia della giustizia ideale colla vita pratica, è il regno non di questo o di quell'uomo ma del pensiero libero e collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente, ha diritto di governare e governerà bene.
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