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      Il Dandolo era quello che parlava di piú, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s'era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce alta:
      - Temo che faremo un bel buco nell'acqua! -
      - Come? - gli diede sulla voce il Dandolo. - Un buco nell'acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d'Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall'abiezione ove eravamo caduti?
      - Io sono medico - soggiunse pacatamente Lucilio. - Indovinare i mali è il mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo.
      - Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! - uscí a dire come ruggendo un giovinetto quasi imberbe e di fisonomia tempestosa. - Bruto disperò morendo, noi siamo per nascere!
      Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d'un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le piú salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant'Angelo, avea furoreggiato per sette sere filate.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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