Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c'era l'invidia dell'ingegno, la piú fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s'accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll'accrescere veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d'uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l'orecchio, o se gli dava qualche zaffata era piú per noia che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell'autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il piú strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all'ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell'eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto a tu per tu una lettera di consiglio all'Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de' suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano cosí facilmente né all'apatia né alla morte.
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