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      I Frumier stavano imbucati nel loro palazzo quasi per paura di qualche aria pestilenziale; soltanto Agostino compariva qualche volta al caffè delle Rive per recitare altamente il suo credo giacobinesco. Egli era fra quelli che credevano alla durata del dominio francese; e speravano racquistare per amore o per forza un grado almeno della perduta importanza. Lucilio passava come un'ombra da casa a casa: si vedeva il medico che non tien piú conto né della propria vita né dell'altrui, e attende a guarire piú per abitudine che per convinzione di operar cosí qualche bene a vantaggio dell'umanità. Leopardo diventava sempre piú cupo e taciturno; l'ozio finiva di consumargli lo spirito; egli non faceva pompa dei proprii dolori, ma si accontentava di morire oncia ad oncia. Raimondo e la Doretta non gli badavano punto; diventavano sfrontati a segno da recitare in sua presenza qualche scenetta di gelosia. Egli si cacciava allora la mano nel petto e la traeva colle unghie lorde di sangue; tuttavia le rughe marmoree della sua bella fronte coperta di nuvole non si risentivano guari di nulla. Unico ristoro gli era il versar nel mio seno non i suoi dolori ma le fatali rimembranze della perduta felicità. Allora rompeva per breve tempo il suo silenzio da certosino; le sue parole somigliavano un canto su quelle labbra pure e fervorose; ricordava con dolore infinito, con amara voluttà, senz'ombra di odio e di rancore.
      Quello invece che smaniava daddovero e sempre era Giulio Del Ponte. In lui era risuscitata con maggior violenza quella malattia che l'avea menato in fil di morte al tempo delle civetterie della Pisana col Venchieredo.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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