Già i fieri Bocchesi di Perasto avevano arso piangendo l'ultimo stendardo di San Marco. La Repubblica di Venezia era morta, e un ultimo suo spirito vagolava ancora nei remoti orizzonti della vita sulle marine di Levante. Vidiman, il governatore di Corfù, fratello al piú saggio, al piú generoso dei Municipali, spirava l'anima nel dolore alle continue vessazioni dei Francesi, sbarcati colà a guisa di padroni. Le popolazioni, stomacate della veneziana debolezza, sdegnavano di servire ai servi; meglio addirittura i Francesi o qualunque altro che la floscia inettitudine di cento patrizi. Ciò che molti secoli addietro si rispettava per la forza, poi si venerava per la prudenza, indi si tollerava per abitudine, allora cadeva nel disprezzo che conséguita sempre all'ossequio goduto lungamente a torto. Nella Municipalità la stessa disperazione d'ogni consiglio ingenerava la discordia: Dandolo e Giuliani predicavano la repubblica universale, quest'ultimo senza alcun riguardo dei sospettosi alleati. Vidiman consigliava la moderazione, perché la storia gli insegnava che se v'è salute pei governi nuovi, essa dipende dalla prudenza e dalla lentezza delle mutazioni. Strepitavano fra loro in quella sala del Gran Consiglio, ove la schietta parola d'un patrizio avea deciso altre volte delle sorti d'Italia. Il sommo impiccio era per me che doveva dar forma di protocolli a interminabili chiacchierate, a vicendevoli rimbrotti senza scopo e senza dignità. Finalmente la gran notizia che serpeggiava negli animi in forma di paura, scoppiò dalle labbra in suono di vera e certa disperazione.
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