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      Ci demmo la posta per Milano dove o nel governo o nell'esercito o colla parola o colla penna o colla mano si sperava di potersi adoperare per la salute comune. S'avvicendavano cosí frequenti i trabalzi e i rivolgimenti di fortuna in quel tempo che la speranza si ravvivava dalla stessa disperazione, piú fiduciosa piú intemperante che mai. Ad ogni modo si voleva dare un esempio della costanza e della dignità veneziana contro quelle terribili accuse che i fatti ci scagliavano. Ora l'uno ora l'altro partiva per dar qualche ordine alle cose sue, e metter insieme qualche roba prima di avviarsi all'esiglio. Chi correva a baciare la madre, chi la sorella o l'amante; chi si stringeva al cuore i bambini innocenti, chi consumava dolorosamente quell'ultima notte contemplando dalla Riva di Piazzetta il Palazzo Ducale, le cupole di San Marco, le Procuratie, queste sembianze venerabili e contaminate dell'antica regina dei mari. Le lagrime scorrevano da quelle ciglia devote, e furono le ultime liberamente sparse, gloriosamente commemorate.
      Io era restato solo col dottor Lucilio perché non aveva la forza di muovermi, quando salí per la scala un rumore frettoloso di passi, e Giulio Del Ponte coi colori della morte sul volto si precipitò nella stanza. Il dottore, che avea parlato pochissimo fino allora, gli si volse contro con molta veemenza a domandargli cosa avesse e perché tanto s'era attardato. Giulio non rispose nulla, aveva gli occhi smarriti, la lingua aderente al palato e pareva incapace di capire quanto gli dicevano.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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