CAPITOLO DECIMOQUARTO
Nel quale si scopre che Armida non è una favola e che Rinaldo può vivere anche molti secoli dopo le crociate. La sbirraglia mi rimette sulla via maestra della coscienza; ma nel viaggio incappo in un'altra maga. Cosa sarà?
Il giorno appresso, non mi vergogna il dirlo, ronzai tutta mattina nelle vicinanze di Santa Maria Zobenigo, ma mi dava non poco pensiero il vedere affatto chiuse le finestre del palazzo Navagero. Mi scontrai, è vero, un paio di volte nel tenente d'Ajaccio che pareva in grandi faccende; ma questo non era il conforto che cercava, per quanto l'inquietudine e il malumore che dimostrava il signor Minato fossero per me buoni pronostici. Tuttavia tornai alla mia tana col maggior grugno del mondo, pensando che se anche i Francesi partivano, non partiva perciò né isteriliva la semenza dei vaghi officiali; e che, per giunta all'ostacolo del marito, ci avrei avuto contro anche quest'altra mostruosità della Pisana. In quel momento né la lettura degli Enciclopedisti né la frenesia della libertà me la scusavano di quel subito invagarsi d'uno sbarbatello in assisa. Mi chiusi in casa e poi in camera a rosicchiare come la vigilia un tozzo di pane ammuffito; in tre giorni era diventato magro come un chiodo, ma neppur la fame mi induceva a capitolare. Cosí alla superficie del mio cervello era un pelago di sdegni patriottici, d'elegie funerarie, e di aerei disegni; a guardar sotto si sarebbe trovato il mio pensieruccio di sedici anni addietro vigile e tenace come una sentinella.
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