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      Ma l'Aglaura non volle rimettersi a quest'opinione, e persisteva nel ritenersi obbligata a raggiungere il suo fidanzato per compensarlo in qualche maniera di ciò che gli faceva soffrire. Circa alla sua malattia, e al trovarsi egli in Milano non poteva dubitarne, perché nell'ultima lettera le avea fatto sapere ch'egli non si sarebbe mosso di colà, e che se non riceveva suoi scritti in seguito, la ritenesse pure ch'egli era o morto o gravemente infermo. Forse il povero esule scrivendo quelle parole sentiva già i primi sintomi di quella malattia che lo teneva allora inchiodato sul letto pestilente d'uno spedale. L'immaginazione dell'Aglaura era cosí vivace che le pareva quasi di vederlo abbandonato all'incuria piucché alle cure d'un infermiere mercenario, e disperato di dover morire senza un suo bacio almeno sulle labbra. In questi discorsi giunsimo a un piccolo villaggio e là ci accomodammo d'un birroccio che ci trascinò fino a Cittadella. Narrarvi come l'Aglaura pigliasse filosoficamente gli incommodi e le fatiche di quel viaggiare alla soldatesca, sarebbe cosa da ridere. La notte si dormiva in qualche bettolaccia di campagna, dove c'era le piú volte una camera sola con un letto solo. Gli è vero che questo era pel solito tanto vasto da albergare un reggimento, ma la pudicizia, capite bene, non permetteva certi rischi. Appena entrati nella stanza si smorzava il lume; ella si spogliava e si metteva a giacere sul letto; io mi rannicchiava alla meglio sopra una tavola o in qualche seggiola di paglia.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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