Impaziente di recarle soccorso e di sottrarla al pericolo imminente d'un ramo che si spezzasse o d'una radice che cedesse, mi calai giù risoluto per la parete quasi verticale della roccia. Strisciava lungh'essa rapidamente col viso coi ginocchi coi gomiti, ma lo strisciamento stesso e qualche cespo d'erba cui mi aggrappava nel passare rompevano il soverchio precipizio della discesa. Non so per qual miracolo arrivassi sano e salvo, cioè almeno colle gambe intiere e colle vertebre bene inanellate, alla macchia di cornioli che l'aveva trattenuta. Allora non avea tempo da maravigliarmi; la ritrassi dalla spinaia in cui era impigliata coi gheroni del cappotto e la addossai ancor semiviva al dirupo. Senz'acqua senza nessun aiuto in quel ginepraio che aveva figura d'un gran nido di aquilotti, io non poteva altro che aspettare ch'ella rinvenisse o guardarla morire. Aveva udito dire che anche il soffio giovasse a ridonare i sensi agli smarriti per qualche commozione violenta, e mi diedi a soffiare negli occhi e sulle tempie spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. Ella dischiuse alfine le ciglia; io respirai come se mi si togliesse di sopra al petto un enorme macigno.
- Ahimè! sono ancor viva! - mormorò ella. - Dunque è proprio segno che Dio lo vuole!...
- Aglaura, Aglaura! - le diss'io all'orecchio con voce supplichevole ed affettuosa - ma dunque non avete nessuna fede in me?... dunque la mia protezione, la mia compagnia hanno finito di rendervi fastidiosa la vita!....
- Voi, voi?
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Dio Aglaura
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