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      Lucilio sporse il labbro, e nulla rispose. Giulio mi disse ghignando ch'era partito per Roma con una bella contessa milanese a farci probabilmente la rivoluzione. I loro atti dispregiativi mi diedero qualche sospetto ma non potei cavarne di piú. Indi a poco rientrò quel capo svasato di Amilcare; nuovi baci, nuova maraviglia. L'era diventato negro come un arabo, con una certa voce che pareva accordata allo strepito della moschetteria; ma mi spiegarono poi che se l'aveva guastata a quel modo insegnando camminare alle reclute. Infatti il mover un passo, che è per sé cosa facilissima, i tattici di guerra l'hanno ridotta l'arte piú malagevole del mondo e bisogna dire che prima di Federico II si combattessero le battaglie o senza camminare o camminando assai male; e non è incredibile che di qui a cent'anni s'insegni ai soldati a batter le terzine e marciare a passo di polka. Quella sera non volea terminare piú, tante cose avevamo da raccontarci; ma eravamo usciti sui bastioni, e al sonar dei tamburi Lucilio fece motto agli altri due ch'era tempo di ritirarsi.
      - Eh sí! - disse Amilcare stringendosi nelle spalle. - Un ufficiale par mio ubbidirà al tamburo!
      - Ed io sono malato; e fo conto d'essere allo spedale - soggiunse Giulio.
      Io mi fidava che Lucilio li avrebbe chiamati al dovere, perché mi tardava l'ora di abboccarmi coll'Aglaura e portarle la lettera e le notizie d'Emilio; ma i due coscritti non badavano punto alle parole del dottore e mi convenne godere la loro compagnia fin'oltre le nove.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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