Dopo la mia separazione da Lucilio mi era fatto cosí burbanzoso e intrattabile che poco ci voleva a farmi saltare la mosca al naso: diedi dei capi guasti e dei credenzoni a chi vedeva meraviglie e magie. Fui rimbrottato come uomo migliore a parole che a fatti; ed eccomi nella necessità di dimostrar loro che non era vero. D'altra parte il martello continuo che mi pestava di dentro e la noia di quella vitaccia poltra e bestiale mi rendevano incresciosa la quiete e mi congratulai d'aver trovato un appiglio a muovermi, a fare non foss'altro delle corbellerie. Il capitano aveva proibito, pena la vita, che ufficiali o soldati, fuor quelli di fazione, s'avvicinassero al convento, ove avea fermato il quartier generale. Quel luogo era vicinissimo al confine; il nuovo esercito napoletano, per formar il quale s'eran tassati perfino i preti e le monache, s'addensava ogni giorno piú nei finitimi confini dell'Abruzzo; qualche avvisaglia poteva nascere, anzi era già nata, piú per impazienza dei gregari, che per deliberato volere dei capi; non voleva il Carafa che col disperdersi la legione da quella parte s'incontrasse qualche spiacevolezza affatto fuori di tempo. Ma questi dettami di prudenza sconcordavano assai dalla solita temerità, e il vero si era ch'egli non voleva occhi importuni intorno al convento. Io giurai ai miei compagni che sarei andato, che avrei veduto, nascesse quel che poteva nascere, e una sera di domenica fu scelta pel gran cimento.
Il mio disegno era questo: di dar una voce d'allarme alla guarnigione del convento, e di girar le mura e penetrare nell'orto per la cinta ruinosa del medesimo mentre tutti avrebbero badato al luogo dove si aspettava il nemico.
| |
Lucilio Abruzzo Carafa
|