A lungo andare peraltro l'estro poetico svaporava, e il buon umore andava appassendo. Una fava costò perfino tre soldi, e quattro franchi un'oncia di pane: a non voler mangiare che pane e fave c'era da rovinarsi in una settimana. Io non aveva in tutto me un ventimila lire tra denari sonanti e cedole austriache; ma di queste non era quello il luogo da ottenere il pagamento e cosí tutto l'aver mio si riduceva a un centinaio di doble. Volendo curare la salute vacillante della Pisana e alimentarla d'altro che di zucchero candito e di sorci ci andava comodamente una dobla al giorno. Da ultimo fui ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma dàlli e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e allora ci convenne far come tutti; vivere di pesce marcio, di fieno bollito quando si trovava gramigna, e di zuccherini, de' quali era in Genova grande abbondanza, perché formavano un importantissimo ramo di commercio. S'aggiunsero febbri e petecchie per ultimo conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir la salute, quando si corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla Pisana; ella racquistò le belle rose delle guance e il suo umorino strano e bisbetico che durante la malattia s'era fatto cosí buono ed uguale da farmi temere qualche grosso guaio. Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v'avea di guasto, e che i visceri erano quelli di prima: anzi la consolazione andò tant'oltre che cominciai anche a spaventarmene. Alle volte saltava su per mordere come una vipera; e s'ingrugnava e aveva il coraggio di tener il broncio un'intera giornata.
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