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      S'avea voluto un esercito, e un esercito in pochi anni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell'ozio e viziate dal disordine si coscrivevano legioni di soldati sobri ubbidienti valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll'ordine colla disciplina. La prima volta ch'io vidi schierati in piazza i coscritti del mio Dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che cosí si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici quelle plebi cittadine che s'armavano infino allora soltanto per batter la campagna e svaligiare i passeggieri.
      Da questi principii m'aspettava miracoli e persuaso d'essere in buone mani non cercai piú dove si correva per ammirare il modo. Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni. Il pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scriveva che s'andava di male in peggio, che abdicando dall'intelligenza sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell'ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell'assenza della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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