- Adunque, senza abbattermi di coraggio, provai. - Un soldo di pane, due di salato ed uno d'acquavite per rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. - Per carità! cos'era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr'ore! - Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. - Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un'idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tre soldi di pane.
E infatti entrai coraggiosamente da un fornaio; li comperai e in quattro morsicate furono messi a posto. M'accorsi con qualche sgomento di non sentire né una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d'un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti e razzolando le briciole che si erano fuorviate andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: "Che sia finita la festa?" "È proprio finita!" risposi io, e sí che mi sentiva lo stomaco ancor piú spaventato dei denti! - Allora mi presi un lecito trastullo d'immaginazione che m'avea servito anche molti giorni prima per ingannar l'appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L'abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio, partito per la Svizzera; Ugo Foscolo, professore d'eloquenza a Pavia; de' miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa dandomi la sera prima la patina aveva uncinato un certo suo nasaccio che voleva dire: "State indietro con questi brutti scherzi!
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