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      Egli mi condusse per prima cerimonia alla cassa ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittoio ove erano molti librattoli unti e gualciti e in mezzo un librone piú grande sul quale almeno si potevano posar le mani senza sporcarsele. Mi disse ch'io sarei stato per allora il maestro di casa il maggiordomo della signora Contessa, almeno finché restasse libero un posto piú confacente agli alti miei meriti. Infatti cascare dall'Intendenza di Bologna all'amministrazione d'una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto dell'antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla piú alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturai di Cheronea coll'egual dignità che se avesse presieduto ai Giuochi olimpici.
      La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora Contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch'ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogi mi sorpresero, e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli ubbriachi non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò piú da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò della mia nuova condizione, e mi fece scrivere all'Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d'entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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