Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che non mi sarei aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo quanto avevamo discorso di lui, dopo le mire ch'io gli supponeva sul conto della Pisana, dopo le trame orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di trovarla in tal compagnia. Di piú s'aggiungeva che sapendo ella l'inimicizia non mai spenta fra me e Raimondo, la doveva anche per riguardo mio tenerselo lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incommodarmi a lungo, e se la cavò con un profondo saluto che equivaleva ad un'impertinenza bell'e buona. Partito lui ci bisticciammo fra noi.
- Perché ricevi quella razza di gente?
- Ricevo chi voglio io!
- Non signora, che non devi!
- Vediamo chi mi potrà comandare!
- Non si comanda, ma si prega!
- Pregare s'affà a chi ne ha il diritto.
- Il diritto io l'ho acquistato mi pare con molti anni di penitenza!
- Penitenza grassa!
- Cosa vorresti dire?
- Lo so io, e basta!
Cosí continuammo un pezzetto con quegli alterchi a monosillabi che sembrano botte e risposte a morsi e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di piú.
Me ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando piú fredda e ingrognata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio, ma schivava ogni discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e di amore poi non voleva sentirne parlare come d'un sacrilegio. Alla terza alla quarta volta si peggiorava sempre; m'incontrai ancora nel suo stanzino da lavoro con Raimondo che giocarellava dimesticamente colla cagnetta.
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