Ma la stravaganza era di chi mi conduceva pel naso; benché poi non possa dire se in quell'occasione adoperai male lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di inspirarmi da me e di prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza adulazione, toccarono allora l'ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio senza pentirmene. Pentirsi d'una azione buona e sublime, per quanto danno ce ne incolga, è sempre atto di gran codardia.
Meglio è contarvela in poche parole. Per la Pasqua del milleottocentosette si stabilirono le nozze. La Pisana fu tanto accorta da farsi invitare dallo zio monsignore a starne presso di lui come governante. Io rimasi con Bruto e l'Aquilina e lo sposalizio fu celebrato mio malgrado e a richiesta della Pisana con grande solennità. L'Aquilina, poveretta, gongolava tutta e non toccava terra pel gran piacere, io mi sforzava di godere della sua gioia, e posso credere di non averla almeno guastata. Alle volte mi guardava indietro sorprendendomi di esser arrivato fin là, e non comprendendo né il perché né il come; ma la corrente mi trascinava; se fu tempo in cui credessi alla fatalità fu certamente allora.
Io sposai l'Aquilina. Monsignore di Fratta benedisse il matrimonio; la Pisana fu matrina della sposa. Io mi sentiva entro una gran voglia di piangere, ma non era senza qualche dolcezza quella melanconia. Al pranzo di nozze non ci fu grande allegria; ma anco non rimasero sui piatti molti avanzi. Monsignore mangiava come avesse vent'anni; io, vicino a lui e un po' sbalordito dagli inopinati accidenti che m'intervenivano, lo domandai non so quante volte della sua salute durante il pranzo.
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