Sperava che vedendomi meno malcontento avrebbe avuto minor rimorso della tirannia con cui aveva fatto violenza alla mia volontà. Sulle prime ella la capí per questo verso; ma i giorni passavano e nelle frequenti visite che ne faceva andava sempre piú oscurandosi in viso; e quelle congratulazioni che recava negli occhi della mia bravura si cambiarono a poco a poco in sospetti ed in stizza. Io credeva non mi trovasse abbastanza premuroso presso l'Aquilina e raddoppiava di zelo e di buona volontà; ella invece s'ostinava nel suo broncio, ed anche con mia moglie non si mostrava piú tanto affettuosa come dapprincipio. Un mattino capitò a casa nostra tutta scalmanata che Bruto e l'Aquilina erano fuori per non so qual motivo. Senza aspettare neppure ch'io la salutassi mi chiuse la bocca con un gesto.
- Tacete - mi disse - ho fretta di sbrigarmi. Voi adesso vi amate: non avete piú bisogno di me. Torno a Venezia.
Io non voleva rispondere, ma ella non me ne lasciò il tempo. Mi gridò nell'uscire che salutassi mia moglie e il cognato: indi rimontò nel calessino col quale era venuta accompagnata dal cappellano di Fratta, e per correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla. Un'ora dopo, quand'io capitai al castello era già partita né si sapeva se per la strada di Portogruaro o di Pordenone colla carrettella dell'ortolano. Fui imbrogliatissimo di dar ragione all'Aquilina e a Bruto d'una sí precipitosa partenza, ma ebbi la felice idea d'inventar la favola d'una malattia improvvisa della signora Contessa; e fui creduto senza fatica.
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