Vennero anche ad offrirmi pulitamente la grazia, se voleva dire chi mi aveva mandato e perché era venuto; ma a queste indiscretissime domande rispondeva abbastanza l'atto di morte di mio padre datato da Molfetta e trovatomi indosso. Risposi adunque che non per altro che per questo era venuto; e che essendomi soffermato a salutare il general Pepe, il mio cattivo destino m'avea tirato addosso quel brutto accidente. Fu dunque come non si fosse parlato; ma io colsi la buona occasione per pregare quei compiti signori di voler mandare alla mia famiglia quell'atto di morte nonché il mio, perché fossero tolti se non altro a loro vantaggio gli scrupoli un po' spilorci della Porta Ottomana.
Quei signori sogghignarono a questo discorso immaginandosi forse ch'io lo avessi fatto per darmi a diveder pazzo; ma io soggiunsi col miglior sorriso del mondo, che facessero l'onore di credere al mio miglior senno, e che tornava a pregarli di quella cortesia. Dettai anzi ad uno di essi l'indirizzo di Spiro Apostulos a Venezia, e dell'Aquilina Provedoni Altoviti a Cordovado nel Friuli. Dal che essi furono persuasi che non celiava e mi promisero che sarebbe fatto secondo la mia volontà. Dimandai anche quando io sarei uscito di prigione per la cerimonia, giacché marciva là dentro da tre mesi, e mi pareva un onesto mercato quello di pagar colla vita una boccata d'aria libera. Saputo poi che l'esecuzione era stabilita pel terzo giorno e che sarebbe avvenuta nelle fosse del castello, me ne imbronciai alquanto.
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