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      Trieste entrava in lizza arditamente, spalleggiata dal commercio viennese e cogli aiuti del governo che o disperava o non si curava di richiamare l'attività veneta al campo primitivo de' suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a morire d'inedia per non tender la mano.
      Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi come protettrice d'Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi e denaro per mandare quattro stambecchi a caricar fichi a Corfù, l'era un gran boccone amaro da ingoiare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il passato, o maturando un futuro. "Prima che la statistica aprisse i suoi registri" disse un ottimo pubblicista "ciascun paese credeva d'essere quello che avrebbe voluto essere." I Veneziani anche nel millesettecento ottanta si reputavano i naturali rintuzzatori della prepotenza mussulmana, perché l'ammiraglio Emo con una dozzina di galee avea tentato gloriosamente qualche rappresaglia contro Tunisi. Era omai l'unica scusa di loro esistenza e si incaponivano a crederla vera. Quando poi la terribile riprova statistica d'una guerra generale mise in mostra i duecento vascelli d'Inghilterra e i quattordici eserciti di Francia; e la fine strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica di Venezia, e che l'Europa non abbisognava omai di alcun freno contro i Turchi, e che se ancora ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere ma quello che era veramente.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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