Ci eravamo appena riavuti dallo sgomento di quella pestilenza, quando una sera, mi pare a mezzo novembre, mi fu annunciata la visita del dottor Vianello. Io era sempre stato in qualche corrispondenza con Lucilio, ma dopo il trent'uno quand'egli pure era venuto in Italia per ripartirne tantosto, le nostre lettere s'erano sempre fatte piú rare. Allora poi non ne aveva notizia da piú d'un anno. Lo trovai curvo, pallido e bianco affatto di quei pochi capelli rimastigli; ma negli occhi era sempre lui; l'anima forte e integerrima scaldava ancora le sue parole, quando alzava un gesto s'indovinava la vigoria dello spirito che covava in quel corpicciuolo asciutto e sparuto.
- T'ho detto che verrò a morire fra voi! - mi disse egli. - Or bene, vengo a mantenere la mia parola. Ho settantadue anni, ma sarebbero nulla senza un noioso mal di petto regalatomi dal clima di Londra. Abbiamo un bel difenderci noi, figliuoli del sole; le nebbie ci rovinano.
- Spero bene che scherzi - gli risposi io - e che come hai guarito me nella vista, cosí guarirai te nel petto.
- Ti ripeto che vengo a mantenere la mia parola. Del resto noi ci conosciamo, e non si abbisognano né scambievoli cerimonie, né bugie. Sappiamo cosa si può sperare della vita, e qual bene o qual male è la morte. Se io ti recitassi ora la commedia con questa mia indifferenza, avresti ragione di piagnucolare; ma sai che parlo come penso, e che se dico di morire in pace, in pace anche morrò. Soltanto ti confesso che mi duole all'anima di non vedere la fine; ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della mia e non giova lamentarsene.
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