S'era un po' scoraggiato dopo l'assassinamento del conte Capodistria, ma poi all'assunzione al trono di re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e di colà agognava i posti piú alti coll'avida pazienza del cane che mette il muso sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di noi, di Venezia, dell'Italia egli non parlava piú che come di altrettante curiosità: piú affettuosamente forse mi scriveva sua moglie, benché dai figliuoli di Spiro sapessi che non la trattava molto bene. E già s'intende che della trascuranza di Luciano mia moglie seguitava ad accagionar me come della morte di Donato.
Peraltro nei due o tre anni che seguirono, disgrazie che colpirono piú direttamente lei me la resero un po' piú indulgente; e di ciò ebbi ed avrò sempre rimorso pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava piú che Bruto il quale sopportava assai lietamente il crescer degli anni, e solamente si lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli spessissimi ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Cosí noi andavamo pian piano scadendo verso la vecchiaia, mentre il paese racquistava la sua gioventù, e quello che seguí poi prova abbastanza che tutti quegli anni non furono né perduti né dormiti come cianciano i pessimisti. Dal nulla nasce nulla: è assioma senza risposta.
CAPITOLO VENTESIMOSECONDO
Nel quale è dimostrato a conforto dei letterati come il conte Rinaldo scrivendo la sua famosa opera sul Commercio dei Veneti si consolasse pienamente della sua miseria.
| |
Capodistria Ottone Ministero Venezia Italia Spiro Luciano Donato Bruto Venezia Rinaldo Commercio Veneti
|