Lucilio, tre quattr'anni prima m'avea già avvertito che l'Ambasceria inglese non avea trascurato quest'affare e che solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della Porta, ma io non avrei mai creduto che si dovesse giungere a qualche risultato: e perciò mi parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che mi furono contate, e quanto agli eredi del Visir li lasciai in pace perché mio figlio Luciano, incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch'erano tutta gente oscura e miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che mi fruttò la liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai un grande e bel podere intorno alla casa Provedoni di Cordovado, nonché molti fondi del patrimonio Frumier, dei quali il dottor Domenico Fulgenzio cercava sbarazzarsi per adoperare piú liberamente la propria sostanza nel circuire e incorporarsi quella degli altri.
Tuttavia l'educazione di Giulio consigliandoci la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di Venezia: pei due mesi d'autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta e là si godeva dell'aria libera e d'una compagnevole villeggiatura. A poco a poco m'era avvezzato a Venezia, ch'era diventato anch'io come quel dabbenuomo che non potea vivere un giorno senza vedere il campanile di San Marco. E non vi dirò del campanile, ma certo la chiesa, le Procuratie, il Palazzo Ducale li rivedeva sempre con un piacere misto di dolcissima melanconia quando il San Martino ci faceva dar le spalle alla campagna.
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