Ma bisogna rendere questa giustizia agli ultimi rappresentanti dell'illustre prosapia dei Conti di Fratta, erano tanto restii a pagare come noncuranti di riscuotere. Il conte Rinaldo adunque e la reverenda Clara si trovavano ridotti all'entrata di un ducato al giorno, piú le tre lire venete che la signora riceveva dall'Erario pubblico come patrizia bisognosa. Ma lo vedete bene che non c'era da gozzovigliare; e infatti l'anno non era per loro che una lunga quaresima.
Fortuna che la signora per le sue estasi serafiche ed il Conte per le continue distrazioni della scienza non aveano tempo di badare allo stomaco. S'assottigliavano ogni giorno piú, ma senza accorgersene; e credo che si sarebbero avvezzati a viver d'aria come l'asino d'Arlecchino. Certo mi ricordo che un giorno avendo io domandato alla contessa Clara perché pigliasse tanti caffè, minacciata com'era da una paralisi, mi rispose che il caffè a Venezia costava poco e ne beveva assai per far senza brodo. Tra il caffè e l'aria, in punto di nutrizione credo che ci sia pochissima differenza. Notate che qualunque donnicciuola si fosse presentata alla loro porta piagnucolando e paternostrando era certa di non partire che dopo aver ricevuto un soldo o un tozzo di pane. Son certo che la Clara al suo peggior nemico, se lo avesse avuto, avrebbe fatto parte dell'ultimo caffè, e datoglielo anche tutto, se si fosse imbronciato del poco.
Il conte Rinaldo intanto cercava per mare e per terra un editore della sua opera; ma pur troppo non lo trovava.
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