Poi dal capezzale di sua madre a quello del padre la vispa fanciulla fu per due buone settimane la piú assidua e affettuosa infermiera che si potesse immaginare. Aveva torto a dire che l'amore è maestro di tutto; anche le disgrazie insegnano assai.
La lettera di Giulio era del seguente tenore:
Padre mio! Tu avevi ragione: contro dieci contro venti si può ribattere un insulto, non contro una moltitudine; e vi sono certi momenti nella vita d'un popolo che ne rendon terribili i decreti. Io portai la pena della mia albagia e del mio sconsiderato disprezzo. Non potrò piú vivere in quella patria che tanto amava, benché disperassi di vederla risorgere; essa si vendica del mio codardo abbattimento respingendomi dal suo seno appunto nell'istante che si raccoglie d'intorno tutti i suoi figliuoli a trionfo e a difesa. Padre mio, tu approverai, credo, la deliberazione d'un infelice che vuol ricompensare col proprio sangue la stima de' suoi fratelli. Vado a combattere, a morire forse, certo ad espiar fortemente un errore di cui pur troppo mi confesso colpevole. Conforta mia madre, dille che il rispetto al vostro nome come al mio m'imponeva di partire. Io non poteva rimanere in un paese dove pubblicamente fui chiamato traditore, spia! E dovetti ingoiar l'insulto e fuggire. Oh padre mio! la colpa fu grave; ma ben tremendo il castigo!... Ringrazio il cielo e la memoria delle tue parole, che mi preservarono dal ribellarmi al sopportar quella pena, consigliandomi di cercar la pace della coscienza in un glorioso pentimento, non il contentamento dell'orgoglio in una vendetta fratricida.
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Giulio
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