... perdonateci!
- Cosa volete?... Vi perdonerò, ma col patto che nessuno ne sappia nulla; non vorrei che ne cavassero un libretto per qualche opera buffa.
Enrico si stava tutto vergognoso, mentre la sfacciatella mi confessava tra supplichevole e burlesca i suoi tradimenti; ma io gli diedi del pugno sotto il mento.
- Va' là, va' là, non farmi l'impostore! - gli dissi - e prenditi la tua sposa, giacché te l'hai guadagnata a Mestre.
Infatti egli non fu zoppo ad abbracciarla, e andammo a terminar l'allegria nella camera dell'Aquilina. Tre settimane dopo Enrico era mio genero, ma gli imposi il sacrifizio di rimanere in casa nostra, perché non voleva essere burlato e pagarne anche le spese. I miei vecchi amici onorarono tutti il pranzo di nozze, e fu provato anche una volta che lo stomaco non conta gli anni quando la coscienza è tranquilla. Quello, credo, fu il colmo delle nostre gioie. Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli interni sgomenti, le lungherie ubbriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio. Eh! ai vecchi non la si dà ad intendere tanto facilmente! Quell'inverno fra il quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva piú alla Francia, non credeva all'Inghilterra, e la rotta di Novara piú che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori. Si combatteva omai piú per l'onore che per la vittoria; sebbene nessuno lo diceva per non scemar agli altri coraggio.
Dopo le pubbliche sciagure cominciarono per noi i lutti privati.
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