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      gli posero un agguato. Eran lor ducil'Emonide Meone, uom d'almo aspetto,
      e d'Autofano il figlio Licofonte,
      intrepido campion. Tidèo gli uccisetutti, ed un solo per voler de' numi,
      il sol Meone rimandonne a Tebe.
      Tal fu l'etòlo eroe, padre di prolemiglior di lingua, ma minor di fatti.
      Non rispose all'acerbo il valorosoTidìde, e rispettò del venerando
      rege il rabbuffo; ma rispose il figliodel chiaro Capanèo, dicendo: Atride,
      non mentir quando t'è palese il vero.
      Migliori assai de' nostri padri a drittonoi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette
      porte espugnammo: e nondimen più scarsieran gli armati che guidammo al sacro
      muro di Marte, ne' divini auspìcifidando e in Giove. Per l'opposto quelli
      peccâr d'insano ardire e vi periro.
      Non pormi adunque in onor pari i padri.
      Gli volse un guardo di traverso il forteTidìde, e ripigliò: T'accheta, amico,
      ed obbedisci al mio parlar. Non io,
      se il re supremo Agamennóne istigaalla pugna gli Achei, non io lo biasmo.
      Fia sua la gloria, se, domati i Teucri,
      noi la sacra cittade espugneremo,
      e suo, se spenti noi cadremo, il lutto.
      Dunque a dar prove di valor si pensi.
      Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.
      Orrendamente risonâr sul pettol'armi al re concitato, a tal che preso
      n'avrìa spavento ogni più fermo core.
      Siccome quando al risonante lido,
      di Ponente al soffiar, l'uno sull'altrodel mar si spinge il flutto; e prima in alto
      gonfiasi, e poscia su la sponda rottoorribilmente freme, e intorno agli erti
      scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghisprazzi diffonde la canuta spuma:


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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483

   





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