videlo Enea, si mosse, e per la foltae fra il rombo dell'aste discorrendo
a cercar diessi il valoroso e chiarofiglio di Licaon, Pandaro. Il trova,
gli si appresenta e fa queste parole:
Pandaro, dov'è l'arco? ove i velocituoi strali? ov'è la gloria in che qui nullo
teco gareggia, né verun si vantalicio arcier superarti? Or su, ti sveglia,
alza a Giove la mano, un dardo allentacontro costui, qualunque ei sia, che desta
cotanta strage, e sì malmena i Teucri,
de' quai già molti e forti a giacer pose:
se pur egli non fosse un qualche numeadirato con noi per obblïati
sacrifizi: e de' numi acerba è l'ira.
Così d'Anchise il figlio. E il figlio a luidi Licaone: O delle teucre genti
inclito duce Enea, se quello scudoe quell'elmo a tre coni e quei destrieri
ben riconosco, colui parmi in tuttoil forte Dïomede. E nondimeno
negar non l'oso un immortal. Ma s'egli
è il mortale ch'io dico, il bellicosofigliuolo di Tidèo, tanto furore
non è senza il favor d'un qualche iddio,
che di nebbia i celesti omeri avvoltostagli al fianco, e dal petto gli disvìa
le veloci saette. Io gli scagliaidianzi un dardo, e lo colsi alla diritta
spalla nel cavo del torace, e certod'averlo mi credea sospinto a Pluto.
Pur non lo spensi: e irato quindi io temoqualche nume. Non ho su cui salire
or qui cocchio verun. Stolto! che in serboundici ne lasciai nel patrio tetto
di fresco fatti e belli, e di cortinericoperti, con due d'orzo e di spelda
ben pasciuti cavalli a ciascheduno.
E sì che il giorno ch'io partii, gli eccelsinostri palagi abbandonando, il veglio
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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