non mi sofferse il cor di più restarminelle case paterne. E servi e amici
e congiunti mi fean con caldi preghidolce ritegno, ed in allegre mense
stornar volendo il mio pensier, si dieroa far macco d'agnelle e di torelli,
a rosolar sul foco i saginatilombi suìni, a tracannar del veglio
l'anfore in serbo. Nove notti al fiancomi fur essi così con veglie alterne
e con perpetui fuochi, un sotto il porticodel ben chiuso cortil, l'altro alle soglie
della mia stanza nell'andron. Ma quandodella decima notte il buio venne,
l'uscio sconfissi, e della stanza evasovarcai d'un salto della corte il muro,
né de' custodi alcun né dell'ancelledi mia fuga s'avvide. Errai gran pezza
per l'ellade contrada, e giunto ai campidella feconda pecorosa Ftia,
trassi al cospetto di Pelèo. M'accolselietamente il buon sire, e mi dilesse
come un padre il figliuol ch'unico in largoaver gli nasca nell'età canuta:
e di popolo molto e di molt'orofattomi ricco, l'ultimo confine
di Ftia mi diede ad abitar, commessode' Dolopi il governo alla mia cura.
Son io, divino Achille, io mi son quegliche ti crebbi qual sei, che caramente
t'amai; né tu volevi bambinelloir con altri alla mensa, né vivanda
domestica gustar, ov'io non priaadagiato t'avessi e carezzato
su' miei ginocchi, minuzzando il cibo,
e porgendo la beva che dal labbroinfantil traboccando a me sovente
irrigava sul petto il vestimento.
Così molto soffersi a tua cagione,
e consolava le mie pene il dolcepensier che, i numi a me negando un figlio
generato da me, tu mi sarestital per amore divenuto, e tale
| |
Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
|
|
Ftia Pelèo Ftia Dolopi Achille
|