Io de' tuoi colpiprendo il timor che mi darebbe il fuso
di femminetta, o di fanciul lo stecco;
ché non fa piaga degl'imbelli il dardo.
Ma ben altro è il ferir di questa mano.
Ogni puntura del mio telo è mortedel mio nemico, e pianto de' suoi figli
e della sposa che le gote oltraggia;
mentre di sangue il suol quegli arrossandoimputridisce, e intorno gli s'accoglie,
più che di donne, d'avoltoi corona.
Così parlava. Accorso intanto Ulisse
di sé gli fea riparo: ed ei sedutodell'amico alle spalle il dardo acuto
sconficcossi dal piede. Allor gli venneper tutto il corpo un dolor grave e tanto,
che angosciato nell'alma e impazïentemontò sul cocchio, ed all'auriga impose
di portarlo volando alle sue tende.
Solo rimase di Laerte il figlio,
ché la paura avea tutti sbandatigli Argivi; ond'egli addolorato e mesto
seco nel chiuso del gran cor dicea:
Misero, che farò? Male, se in fugami volgo per timor: peggio, se solo
qui mi coglie il nemico ora che Giove
gli altri Achei sgominò. Ma quai pensierimi ragiona la mente? Ignoro io forse
che nell'armi il vil fugge, e resta il prodea ferire o a morir morte onorata?
Mentre in cor queste cose egli discorre,
di scutati Troiani ecco venirneuna gran torma che l'accerchia. Stolti!
che il proprio danno si chiudean nel mezzo.
Come stuol di molossi e di fiorentigiovani intorno ad un cinghial s'addensa
per investirlo, ed ei da folto vepresbocca aguzzando le fulminee sanne
tra le curve mascelle; d'ogni parteimpeto fassi, e suon di denti ascolti,
e della belva si sostien l'assalto,
benché tremenda irrompa e spaventosa:
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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Ulisse Laerte Argivi Giove Achei Troiani
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