superate le rupi, all'estuosoPonto discese, e nella sacra Lenno,
di Toante città, rattenne il volo.
Ivi al fratello della Morte, al Sonno
n'andò, lo strinse per la mano, e disse:
Sonno, re de' mortali e degli Dei,
s'unqua mi festi d'un desìo contenta,
or n'è d'uopo, e saprotti eterno grado.
Tosto ch'io l'abbia fra mie braccia avvinto,
m'addormenta di Giove, amico Dio,
le fulgide pupille: ed io d'un seggiod'auro incorrotto ti farò bel dono,
che lavoro sarà maravigliosodel mio figlio Vulcan, col suo sgabello
su cui si posi a mensa il tuo bel piede.
Saturnia Giuno, veneranda Dea,
rispose il Sonno, agevolmente io possoogni altro iddio sopir, ben anche i flutti
del gran fiume Oceàn di tutte cosegeneratore; ma il Saturnio Giove
né il toccherò né il sopirò, se tantonon comanda egli stesso. I tuoi medesmi
cenni di questo m'assennâr quel giornoch'Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto,
navigava da Troia. Io su la mentedolce mi sparsi dell'Egìoco Giove,
e l'assopii. Tu intanto in tuo segretomacchinando al suo figlio una ruina,
di fieri venti sollevasti in mareuna negra procella, e lui svïando
dal suo cammin, spingesti a Coo, da tuttii suoi cari lontano. Arse di sdegno
destatosi il Tonante, e per l'Olimpo
scompigliando i Celesti, in cerca andavadi me fra tutti, e avrìa dal ciel travolto
me meschino nel mar, se l'alma Notte,
de' numi domatrice e de' mortali,
non mi campava fuggitivo. Ei posciaper lo rispetto della bruna Diva
placossi. E salvo da quel rischio appenavuoi che con esso a perigliarmi io torni?
Di periglio che parli? e di che temi?
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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