gli aspri comandi che per mio parerede' mortali fra poco e degli Dei
le liete mense cangeranno in lutto.
Tacque, e s'assise. Contristârsi in cieloi Sempiterni; e Giuno un cotal riso
a fior di labbro aprì, ma su le nereciglia la fronte non tornò serena.
Ruppe alfin disdegnosa in questi detti:
Oh, noi dementi! Inetta è la nostr'iracontra Giove, o Celesti, e il faticarci
con parole a frenarlo o colla forza
è vana impresa. Assiso egli sull'Ida
né gli cale di noi né si rimovedal suo proposto, ché gli Eterni tutti
di fortezza ei si vanta e di possanzaimmensamente superar. Soffrite
quindi in pace ogni mal che più gli piacciainviarvi a ciascuno. E a Marte, io credo,
il suo già tocca: Ascàlafo, il più carod'ogni mortale al poderoso iddio
che proprio sangue lo confessa, è spento.
Si batté colle palme la robustaanca Gradivo, e in suon d'alto dolore
gridò: Del cielo cittadini eterni,
non mi vogliate condannar, s'io scendol'ucciso figlio a vendicar, dovesse
steso fra' morti il fulmine di Giove
là tra il sangue gittarmi e tra la polve.
Disse; e alla Fuga impose e allo Spavento
d'aggiogargli i destrieri; e di fiammantiarmi egli stesso si vestiva. E allora
di ben altro furor contro gli Deidi Giove acceso si sarebbe il core,
se per tutti i Celesti impauritanon si spiccava dal suo trono, e ratta
fuor delle soglie non correa Minerva
a strappargli di fronte il rilucenteelmo, e lo scudo dalle spalle: e a forza
toltagli l'asta dalla man gagliarda,
la ripose, e il garrì: Cieco furente,
tu se' perduto. Per udir non haitu più dunque gli orecchi, e in te col senno
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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