del gelo della fuga empiesti il petto.
Così spinti fermârsi appo le navi,
e a vicenda incuorandosi, e le maniai numi alzando, ognun porgea gran voti.
Ma più che tutti, degli Achei custode,
il Gerènio Nestorre allo stellatocielo le palme sollevando orava:
Giove padre, se mai nelle fecondepiagge argive o di tauri o d'agnellette
sacrifici offerendo ti pregammodi felice ritorno, e tu promessa
ne festi e cenno, or deh! il ricorda, e lungi,
dio pietoso, ne tieni il giorno estremo,
né voler sì da' Troi domi gli Achivi.
Così pregava. L'udì Giove, e fortetuonò. Ma i Teucri dell'Egìoco Sire
udito il segno si scagliâr più fiericontro gli Achivi, ed incalzâr la pugna.
Come del mar turbato un vasto fluttoda furia boreal cresciuto e spinto
rugge e sormonta della nave i fianchi;
tali i Teucri con alti urli salirola muraglia, e, cacciati entro i cavalli,
coll'aste incominciâr sotto le poppeun conflitto crudel, questi su i cocchi,
quei sul bordo de' legni colle lunghe,
che dentro vi giacean, stanghe commesse,
ed al bisogno di naval battagliaaccomodate colle ferree teste.
Finché fuor del navile intorno al muroarse de' Teucri e degli Achei la pugna,
del valoroso Eurìpilo si stettePatroclo nella tenda, e ragionando
il ricreava, e sull'acerba piagadell'amico, a placarne ogni dolore,
obblivïosi farmaci spargea.
Ma tosto che mirò su l'arduo murosaliti a furia i Teucri, e l'urlo surse
degli Achivi e la fuga, in lai proruppe,
e battendosi l'anca, Ohimè! diss'egliin suono di lamento, una feroce
mischia là veggo. Non mi lice, Eurìpilo,
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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