fu che di poca terra li coprisse,
perché converso in dure pietre aveaGiove la gente. Alfin lor diero i numi
nella decima luce sepoltura.
Stanca la madre del suo molto pianto,
non fu schiva di cibo. Or poi fra i sassidel Sipilo deserti, ove le stanze
son delle Ninfe che sul verde margodanzano d'Achelèo, cangiata in rupe
sensibilmente ancor piagne, e in ruscellisfoga l'affanno che gli Dei le diero.
E noi pure, o divin vecchio, pensiamoal nutrimento. Ritornato poscia
col figlio a Troia, il piangerai di nuovo,
ché molto è il pianto che ti resta ancora.
Così detto, levossi frettoloso,
e un'agnella sgozzò di bianco pelo.
La scuoiaro i compagni, e acconciamentel'apprestâr minuzzandola con molta
perizia; e infissa negli spiedi, e quindiben rosolata la levâr dal foco.
Da nitido canestro Automedonte
pose il pan su la mensa, ed il Pelìde
spartì le carni. La man porse ognunoalle vivande apparecchiate, e spento
del cibarsi il desìo, Prìamo si posemaravigliando a contemplar d'Achille
le divine sembianze, e quale e quantoil portamento. Stupefatto ei pure
sul dardànide eroe tenea le lucifisse il Pelìde, e il venerando volto
n'ammirava e il parlar pieno di senno.
Come fur sazii del mirarsi, ruppePrìamo il tacer: Preclaro ospite mio,
mettimi or tosto a riposar, ch'io possagustar di dolce sonno alcuna stilla.
Dal dì che sotto la tua man possenteil mio figlio spirò, mai non fur chiuse
queste palpebre, mai; ch'altro non seppida quel punto che piangere, ululare,
voltolarmi per gli atrii nella polve,
mille ambasce ingoiando.
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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483 |
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