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      Le parole richiamano sì quelle azioni, non come involucro esornativo, come vuoto guscio, ma come riflesso diretto, come prodotto e distillato concettuale di quelle azioni. Soffermarsi o valutare di un'opera letteraria la forma estetica equivale dunque a giudicare un vino dal disegno dell'etichetta o dai cocci dell'anfora che l'hanno contenuto. "Le donne un po' civettuole cantano per il piacere di udire la propria bella voce, sono lontanissime dai fatti, li hanno dimenticati" (Roussos). Il grande pericolo in cui versa la scrittura è quello di farsi incantare dalle parole. Come lo scorpione accerchiato dalle fiamme, se non trova via d'uscita, si uccide col proprio pungiglione, così la scrittura può imbalsamarsi nei propri estetismi e perdere il concreto riferimento coi fatti, perdere in profondità di significato, in connotazioni, quando, cambiando le carte in tavola, il rinvio al referente è diventato orpello superfluo. Diventa vuoto pupario, lo "scheletro di una cicala". "Versato da giovane negli studii matematici, poi tutta la vita ne' giuridici, erudito delle lettere più recondite, non poteva il Delviniotti riguardare l'arte dello scrivere come un piacente congegno di suoni vuoti" (Tommaseo).
      Il grande paradosso della scrittura è la sua lotta, in rincorsa col tempo, per essere artistica e lo è quanto più rinuncia a ciò che per definizione o tradizione la renderebbe tale. Esiste dunque una tensione intrinseca per emanciparsi dai modelli, una energia interna (uno Streben faustiano) che la porta a rinnovarsi continuamente.


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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