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      E noi, veglio, imporrémti una tal multaChe ti fia il sostenerla, aspro tormento. 250
      Or vo' assennar Telèmaco: rimandiLa madre a Icàrio; appresteran le nozze
      I parenti colà; di molti e ricchiDoni la seguiran come si addice
      A tal figlia diletta. Oh! certo prima 255
      Non ristaranno, no, di Grecia i figliDall'inchiesta ostinata; alcun non havvi
      Che ci atterrisca; benché sì loquace,
      Non lo stesso Telèmaco: né curaPrendiam già noi del vaticinio, o veglio, 260
      Che ad annunziar testé ti fésti indarno;
      Anzi da noi maggiore odio t'acquisti.
      Strutte fìen le sostanze e l'ordin guasto,
      Finché a' Greci costei le nozze indugia;
      Per la costei virtù, con lunga attesa 265
      Contenderemo, né già ad altre sposeAspirerem, benché di noi ben degne."
      ß 208 Ed il garzon: "Eurìmaco e voi, Proci,
      Né porger prieghi più, né qui davantiAll'adunanza ragionar mi udrete; 270
      Già già agli Eterni abitator del Cielo,
      A' Dànai tutti già chiara è ogni cosa;
      Un legno e vénti rèmigi sol chieggo,
      Che mi aprano qua e là l'equoree vie.
      A Sparta, a Pilo dell'assente padre 275
      Per ritrar, mi addurrò; sia ch'uom me n' parli,
      O la voce di Giove oda, che tuttiDel futuro gli arcani apre e disvela.
      Se udrò ch'ei vive e redirà, quantunqueDolente, un anno sosterrò; ma dove 280
      Estinto sia, tornato al natìo loco,
      Gl'innalzerò un sepolcro e con funèbrePompa, qual si convien, fàttogli onore,
      Da me la madre accetterà uno sposo."
      ß 224 Tacque e si assise. Tra gli Argivi surse 285
      Mèntore, già compagno al prode Ulisse,
      A cui, quando nel suo legno salìa,
      Commise di vegghiar sopra i suoi cari,


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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