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      A grand'agio,
      De' sconci massi 'l ruinar, fuggėoLa nave mia nel pelago; ma l'altre 175
      Del vasto porto in sen, tutte perîro.
      ? 133 Di lā rivogavamo oltre dogliosi,
      Quantunque in salvo, per gli amici estinti.
      In sull'Eča sorgemmo isola. QuiviLa bionda Circe, orrevol Dea dal dolce 180
      Canto, soggiorna, del sagace Ečta
      Suora germana: ambo produsse il Sole,
      Fonte di luce, e Persa, inclita figliaDell'Ocčano. Taciti approdammo,
      Lā 've capace un porto āpresi: certo 185
      Un Nume ne scorgea. Discesi a riva,
      Due dė e due notti ivi giacemmo, a un tempoStanchezza e doglia ci rodeano 'l core.
      Come l'Aurora il terzo dė scorgea,
      D'un giavellotto armato e del mio brando, 190
      Ratto salgo dal legno a un arduo giogo,
      Se forse d'uom védesi opra o la voceN'udissi. Stando in sull'alpestre cima,
      Scorsi di Circe nel palagio ad alto,
      Dall'ampia terra sollevarsi un fumo, 195
      D'infra i spessi querceti e la foresta.
      Giā d'ir fermava e di cercare dondeVolvéasi 'l fumo: indi, miglior consiglio
      Pārvemi: al lito rivolgendo i passi,
      Di cibo a' miei porger conforto e poscia, 200
      Mandarne alcuni ad esplorar. DistavaPoco dal legno, quando ad un de' Numi,
      Di me solingo increbbe, e in quella viaD'alte corna ramose un cervo enorme
      Pėnsemi innanzi; giā dal Sol riarso, 205
      Uscendo fuori de' selvosi paschi,
      Alle chiare del fiume onde scendea.
      Lanciātovisi appena, in sulla spinaA mezzo il dorso il colpėa, sė che 'l ferro
      Da parte a parte il trapassō; lugųbre 210
      Mise caggendo un gemito e spirō.
      Corsi; e del pič 'l calcando, dalla piagaRitrassi l'asta e la deposi a terra.


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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