Gli baciai le ginocchia e gliele strinsi;
Tocco il cor di pietà, pósemi in salvo,
Collocommi nel cocchio e al suo palagio 365
Me piangente adducea. Vero è che molteRàbide turbe con frassìnee lance
Agognavano uccìdermi: ma schermoFùmmi 'l Re che l'ultrice ira temea
Del gran Giove ospital, cui le malvage 370
Opre, più ch'altro mai, sono in dispetto.
Sett'anni vissi là, molte raccolsiRicchezze, tutti mi colmâr di doni.
Volgea l'ottavo ed èccoti un Fenice,
Gran fabbro di menzogne, ivi comparve, 375
Avido di guadagno, aspre sventureTirò addosso a' mortali. Ei con le usate
Arti fallaci, d'ir mi persuaseSeco in Fenicia ove tenea palagi
E dovizie; di Sol stetti ivi un giro. 380
Ma quando i mesi e i dì rivolti, l'oreSuccedendosi, 'l fin recâr dell'anno,
Novi 'l Fenice meditando inventi,
M'imbarcò per la Libia, ond'io con luiDel veloce navil vegghiassi al carco; 385
Ma véndermi il fellon quivi a gran prezzoDisegnava. Non senza alto sospetto,
Necessità stringèndomi, 'l seguìa.
Da puro soffio boreal sospinto,
Nel mar tra Creta e Libia il pin correa; 390
Ma l'esizio a costor Giove fermava.
? 301 Quando, né Creta più, ned altra terra,
Ma Cielo ed acqua vedevam soltanto,
Il Satùrnio sul legno atra una nubeSospese, sotto cui s'abbuiar l'onde. 395
Forte e spesso tonando, in sulla naveLa folgore scagliò; dall'igneo telo
Percossa, rigiràvasi avvampando;
I naviganti in mar precipitâro.
Trabalzati dall'onde, al par di corvi 400
Al legno intorno erravano; la spemeTolse lor tutta del redire un Dio.
Giove a me, vinto da un immenso affanno,
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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437 |
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