Giunti a basso, mi trovai in faccia di parecchi carabinieri: mi frugarono le tasche, le vesti, e m'incatenarono con un giovane (Rizzoli, amanuense del dottor Galletti); indi, fattici salire in una carrozza, partimmo, senza sapere per qual direzione. Nell'interno avemmo due gendarmi, un altro a lato del vetturino, e due a cavallo facevano da avanguardia e retroguardia; gli sportelli chiusi.
Come pervenimmo a Imola, ci fermammo un istante fuori delle porte a cambiar cavalli. Si aprirono gli sportelli, e conobbi ov'eravamo: ivi avea passati gli anni di mia giovinezza. Quante e quali reminiscenze mi assalirono! Mio zio, il fratello, i comuni amici piangevano forse sulla mia sorte: era vicino a loro, e non poteva, non che abbracciarli, vederli!
In brevi istanti ci rimettemmo in viaggio; a Forlė prendemmo qualche cibo nella caserma dei gendarmi; ivi conobbi il capitano Freddi(1), figlio del colonnello, il quale usō verso noi molta asprezza e disprezzo. Per mangiare non ci venne disciolta che una sola mano; rimanemmo cosė incatenati sempre l'uno all'altro.
All'alba del lunedė giugnemmo a Pesaro, vale a dire che percorremmo da settanta miglia in ventisei ore.
Fui separato dal compagno, e chiuso in una prigione del Palazzo governativo, detta Segretina, la peggiore di tutte. In linea diagonale era lunga tre passi, e la sua ristrettezza tale che vi sarebbero appena stati due sacchi di paglia disposti pel lungo. Due grosse porte ne chiudevano l'ingresso, e per entrarvi faceva d'uopo chinarsi a mezza vita.
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