Fatto appena un passo incontravisi un muro, che si alzava sino alla metà dell'altezza della porta interna; questo formava il piano della segreta. La finestra era alta un sette metri incirca, ed i secondini entravano alla sera con una scala per chiuderne a chiave le imposte. Non potendo respirare liberamente, una sera percossi la porta assai forte; ma spossato mi gettai prosteso sul paglione. I secondini vennero, e mi trovarono svenuto; mi soccorsero di aceto; parlai, addussi la ragione di ciò, e fu permesso che la finestra sarebbe stata d'allora in poi aperta. Del resto, visite di due ore in due ore, sacco di paglia, una sola coperta di grossa lana, e per soprappiù insetti di ogni sorta.
Passati da quattro o cinque giorni, udii un rumore insolito, uno stridere di catenacci, un suonar forte di catene; urli e canti da prigioniero in dialetto bolognese; potei udire alcune conversazioni; conobbi che dei ventuno condannati a morte, quattordici erano di passaggio per alla volta delle galere di Civitavecchia, e sette stati fucilati alle spalle. Questi appunto erano coloro, che rispondevano a' miei compagni nella segreta di Bologna e che mi avevano fatto animo.
La morte di quei sette popolani mi ebbe ricolmo di dolore: l'esordio della mia prigionia non era consolante: galera e fucilazione; incominciava io stesso a prepararmi.
Intanto passavano i giorni assai lentamente. Al mattino cantarellava un poco, e talvolta provava di passeggiare; ma, per l'angustia della segreta, mi girava talmente il capo, che m'era forza starmene quasi sempre coricato.
| |
Civitavecchia Bologna
|