Tutti questi fatti lasciavano su di noi una ben trista impressione, tanto più amara in quanto che eravamo nell'incertezza del fato che ci aspettava. Non molto dopo ci venne annunziato che il processo volgea verso il suo termine. Passato qualche dì, fui condotto nella cancelleria a intertenermi coll'avvocato Dionisi, scelto a difensore dai miei. Venuti sul parlare della causa, egli disse: "Il suo processo è assai intricato; se non confessa, non vi ha rimedio per lei". Risposi: nulla sapere; essere innocente; ignorare qual cosa avessi dovuto confessare. A queste parole mi lasciò bruscamente.
Stupefatto di tale procedimento, mi ricondussero nella prigione, e narrai tutto ai compagni che rimasero di gelo: ci accorgemmo allora che la difesa era una parola vuota di senso; che i nostri difensori la facevano da giudici processanti; che il tutto si restringeva a formalità di apparenza. Che farci? Vae victis!
Dionisi tornò di nuovo: stetti fermo. Il giorno della decisione della causa fummo ad uno ad uno tradotti incatenati al Palazzo Madama. Toltemi per un istante le manette, mi trovai al cospetto dei giudici della Sacra Consulta; monsignor Matteucci n'era il presidente. Vedevasi da un lato il segretario Evangelisti, che fu in seguito pugnalato, e da un altro l'avvocato Dionisi. Tutti composti con aria grave e serena. Il presidente mi chiese, se nulla avessi ad aggiungere al mio processo. "Nulla, nulla" risposi. Volli però difendermi; incominciai, ma egli suonò il campanello, comparvero i gendarmi, fui ammanettato e condotto di nuovo alle carceri.
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